Quel giorno lontano, una mattina molto presto, camminavo senza fretta lungo una strada poco frequentata che collegava due sobborghi della periferia meridionale di Parigi. Non avevo ancora incrociato anima viva se non fosse stato per il lampionaio che a quell’ora, terminato il suo giro d’abitudine, si muoveva rapido verso casa. Le finestre delle modeste abitazioni, affiancate senza interruzioni su entrambi i lati della strada, cominciavano appena a schiudersi. Dal loro interno la luce bassa dei lumi a petrolio lasciava a tratti intravvedere ombre lente, ancora assonnate.
Una carrozza era apparsa in fondo alla strada. Procedeva rapida verso di me che le andavo incontro rasentando il muro alla mia destra. Preceduta dallo sferragliare sordo delle ruote cerchiate di ferro che saltavano sull’acciottolato sconnesso, mi fu vicino prima di quanto stimassi. Mi appiattii contro la parete di una casa per farla passare. Sfiorandomi il lembo del mantello, mosso a lungo dal vortice d’aria della sua scia, la carrozza si allontanò rimpicciolendo nella nebbia che ancora stagnava sul quartiere. Ripresi a camminare, non senza un gesto di stizza verso l’anonimo vetturino che maledicevo giudicando pessimo il suo modo di condurre carrozze. I suoi rumori intanto si spegnevano lontano. Il silenzio, così come era stato interrotto, rapidamente si riappropriò di Rue des Amis e delle sue vecchie case di pietre e mattoni.
A un tratto un rumore di passi ravvicinati, in rapida successione, mi distrasse dalle considerazioni sullo scampato pericolo. Di fronte a me non scorgevo alcuno. Voltandomi, la via appariva altrettanto vuota. Rallentai fino a fermarmi per ascoltare meglio. Ora il rumore ritmato e preciso si era fatto più distinguibile. Quei passi frettolosi parevano prodotti da un corpo esile, minuto. Richiamavano in me l’idea di un’infinita fragilità racchiusa in una giovane donna, forse una ragazza. L’appartenenza di quel suono, uscito dai silenzi di una Parigi ancora assonnata, m’incuriosiva ora non meno della sua indecifrabile provenienza. Mi accorsi di stare procedendo veloce verso la sua imprecisata origine, badando a non aggiungere rumore al rumore. Fu in quell’attimo che mi avvidi di un angusto vicolo, largo forse poco più d’una persona appena, che confluiva ad angolo retto nel mio tragitto. Decine di volte in passato avevo percorso quella strada, eppure non ricordavo d’avere mai notato quella sorta di anfratto, lungo e stretto. Quasi un pertugio aperto verso l’alto, se aperto lo era visto che i tetti, al terzo piano, si sarebbero dovuti toccare se non addirittura sovrapporre. Questo pensai in quell’attimo, in quella frazione d’istante che impiegai per occupare, transitando ad andatura poco meno che sostenuta, l’accesso a quell’indecifrabile apertura che anche solo un ridotto portone avrebbe potuto comodamente celare. In quello stesso momento un’ombra sbucò furtiva da quel medesimo vicolo entrando nel debole chiarore della via. Comparendo all’improvviso mi urtò il fianco destro. Entrambi ci bloccammo e i due sguardi si incrociarono rapidi, dubbiosi, indagatori e… mio Dio!
Era quanto di più terribile avessi potuto incontrare! Fu per un attimo, ma a distanza di quasi settant’anni, raccontarlo per me è sempre una pena indicibile. Ancora oggi ho di fronte quel volto, osservato per una frazione di istante e mai più rivisto. Ma nemmeno mai più dimenticato. Sopra un’esile figura di semplice e giovane donna, forse di fanciulla soltanto, si appoggiava un viso deforme che anche solo descrivere, ricordandone la potenza di ogni suo più straziante dettaglio, diventa motivo di angoscia profonda. Le sue ossa, comprese quelle del cranio, coperto da radi ciuffi di capelli nerissimi, parevano aver subito la compressione di una ganascia dai cui effetti non si erano più riprese. Uno degli zigomi era scomparso ed al suo posto la pelle, lucida e tirata, mal celava il vuoto. La cartilagine nasale s’era in gran parte dissolta lasciando ben in vista un foro unico, allungato a conferire un che di mortifero a quella disgraziata maschera umana. La deformazione non aveva risparmiato mascelle e mandibole, irrimediabilmente disarticolate. Inoltre, la parte sinistra del volto denunciava palese l’offesa del fuoco. La pelle si era raggrinzita storpiando, ancor più di quanto ce ne fosse stato bisogno, quei poveri lineamenti.
Da quel lato l’occhio, se ancora poteva essere definito tale, si riduceva ad una fessura nerastra. Un’ampia cicatrice lo attraversava di sbieco fermandosi appena sopra il labbro superiore. In compenso l’altro bulbo, oblungo e cadente, quasi s’enucleava da un’orbita grande quasi il doppio d’una normale, producendo l’effetto di una gran macchia bianca e mobile sopra un insieme di atrocità che lasciava inorriditi. Mi fissò con il suo unico angosciante occhio rigonfio che in quell’attimo mi apparve tanto deforme quanto ricolmo di una tristezza infinita. Mentre la osservavo, attonito ed incapace di distogliere il mio sguardo da tanto inaspettato orrore, lei scivolò via tra il muro e il mio fianco, attraversando la via con quel rumore di passi rapidi e leggeri che poco prima tanto mi aveva incuriosito. Varcò una porta anonima, comune e simile a tante altre di quella strada. Ma prima di sparire per sempre alla mia vista, si voltò verso di me per un ultimo, prolungato istante.
Di tutto quello che ero riuscito a percepire durante quel fugace ed imprevisto incontro, non furono i particolari tragici di quel volto sfigurato a colpirmi più di ogni altra cosa. Ci fu qualcosa in quello stesso viso che nel ricordo supera, ancora oggi e per sempre, le atrocità di quanto, a fatica, ho raccontato. Qualcosa che con maggiore potenza ed effetto si è inserito nella mia mente coprendo e stemperando la disperazione di quei tratti devastati. È il ricordo di uno strano, deforme e al tempo stesso sereno e timido sorriso col quale la sconosciuta disgraziata ricambiò il mio sguardo attonito e colmo di repulsione. Un remoto, indimenticabile, intenso sorriso. In Rue des Amis, a Parigi, settant’anni fa.