All’altezza delle ripide pareti settentrionali della Creta di Rio Secco, diretta propaggine del più conosciuto Monte Cavallo di Pontebba, l’ampia valle glaciale di Aip comincia a restringersi rapidamente fino a chiudersi ad anfiteatro in corrispondenza della Sella di Alp, limitato pianoro disseminato di frastagliate rocce arroccate a quasi duemila metri di altezza.
Duecento ripidi metri separano il culmine dell’anfiteatro dal fondo della sottostante vallata. Duecento metri che per quasi cinque mesi all’anno si modellano di bianco con uno strato spesso e compatto che leviga e pulisce, spiana e addolcisce uniformando asperità e voragini, solchi e promontori.
Il naturale anfiteatro della Sella di Aip, inciso nella roccia dagli ultimi transiti glaciali, è sagomato in piccoli e discontinui gradoni orizzontali. Uno ditali ripiani, il più affascinante ed inquietante per la posizione strapiombante sulla valle, è occupato da un Bivacco del CA! intitolato ad Ernesto Lomasti. Quattro metri di lunghezza per due di larghezza e poco più d’altezza costituiscono una irripetibile ospitalità sotto la silenziosa e vigile tutela delle Crete di Aip e Rio Secco e del Monte Cavallo, che del Bivacco Lomasti, nella quiete della notte, sembrano essere le uniche vere pareti.
Erano gli ultimi giorni di maggio. Una primavera tardiva tenacemente dissolveva con giornaliera prepotenza la neve del fondovalle mentre i bianchi e levigati strapiombi calcarei della Creta di Rio Secco si coprivano a tratti di lucenti patine d’acqua sciolta dalla coltre di ghiaccio che in parte ancora ne ricopriva le sommità.
La salita dal Passo del Cason di Lanza verso il Monte di Val Dolce e poi giù lungo il fondo della rettilinea Valle di Aip mi stava impegnando dalla prima mattina. Il freddo a tratti ancora intenso non limitava il sottile piacere di riprendere, dopo la forzata pausa invernale, le uscite in montagna.
La grande dolina nella quale moriva, al suo estremo margine occidentale, la Valle di Aip era da tempo scomparsa, riempita e livellata da una uniforme coltre di millenari detriti alluvionali. Il suo gigantesco e piatto fondo circolare orlato dai chiari rilievi calcarei sembrava ora, nella sottile e stagnante nebbia del mattino un’insolita piattaforma di atterraggio.
Superandola non immaginavo che dill a poche ore sarei ritornato sopra a quel luogo, con tutt’altro spirito e soprattutto contro ogni mia volontà.
La neve in quel punto era ancora alta ma sufficientemente compatta da consentirmi un agevole attraversamento. Un’ulteriore mezz’ora di cammino mi portò alla base della stretta conca glaciale principio e chiusura di tutta la vallata: l’anfiteatro alla cui sommità era stato radicato, nella posizione di immobile vedetta, il Bivacco Lomasti. Durante la risalita del fondovalle ne avevo seguito fin da lontano, con cadenzati sguardi, l’inconfondibile presenza di levigata lamiera rossa che mi indicava costantemente la meta.
Un punto acceso che col procedere dei passi andava trasformandosi in macchia di colore prima per acquistare poi, lentamente, i contorni a me da tempo noti. Un attimo prima che potesse scomparire nascosto dalla ripida parete che chiudeva a conca la valle e che di lì a poco m’apprestavo a salire, tolsi il binocolo dallo zaino e ne inquadrai la sagoma in lamiera. C’era qualcosa di insolito in quell’immagine che ora fissavo, qualcosa di stridente ma al tempo stesso di perfettamente normale. Questa era la sensazione inquietante che ricevetti all’improvviso apparire dell’immagine ingrandita del Bivacco, troppo piccola ancora per poter risolvere la natura dell’impressione ricevuta, già troppo grande per poter pensare solo ad una semplice impressione. Continuavo a percepire in ciò che stavo vedendo qualcosa di strano, di vagamente irrazionale, di palesemente inconcepibile, eppure la ragione mi spingeva a considerare perfettamente normale quanto stavo osservando. Ed in effetti ‑ mi trovai a pensare ‑ quello era il Bivacco Lomasti, ormai familiare, con l’inconfondibile sagoma, il caratteristico colore, con la posizione che gli sono propri. Ma ancora era solo la ragione a suggerirmi che tutto si presentava come logico. L’istinto continuava a sottolinearmi qualcosa di decisamente insolito e pericoloso in quell’immagine, qualcosa che non individuavo ma di cui ‑ me ne resi conto più tardi ‑ avrei già potuto accorgermi. L’incertezza innescata da quella impropria sensazione aveva generato in me un disagio crescente. Salivo e mentre guadagnavo metri di dislivello il fatto di non riuscire a scorgere il diretto oggetto della sinistra percezione e al tempo stesso il sapere che mi stavo rapidamente avvicinando ad esso e che una volta in cima l’avrei avuto, all’improvviso, di fronte, mi rendeva quasi insopportabile la forzata attesa.
Salivo ora l’ultimo tratto con la neve che in certi punti raggiungeva ancora il mezzo metro. Alzai lo sguardo e all’improvviso me lo trovai davanti, leggermente spostato sulla destra, tra una tenue nebbia che si era andata nel frattempo addensando. Il Bivacco Lomasti era lì, circondato da neve priva di impronte e già decisamente intaccata dal tardivo disgelo. Ci separavano una trentina di metri, sulla stessa quota.
Ora potevo osservano di nuovo, come già avevo fatto da lontano, e meglio, mdlto meglio. La sensazione di disagio si ripresentò immutatabed anzi andò accrescendosi nel silenzioso confronto.
Mi avvicinai circospetto a quella scatola metallica rossa, solidamente ancorata alla roccia sottostante da sei robusti cavi d’acciaio, cercando di far coincidere mentalmente i particolari della struttura che avevo di fronte con il ricordo che conservavo di essi. Tutto coincideva, eppure la sensazione di una grossa anomalia che coinvolgeva l’essenza stessa del Bivacco Lomasti non si attenuava.
Una improvvisa raffica di vento sollevò, per un breve attimo, la nebbia che da mezz’ora ovattava la zona. In quell’istante, come durante un improvviso lampo di temporale notturno, tutto mi apparve limpido e definito. Il Bivacco Lomasti, silenzioso e monolitico, si stagliava sulla striscia di neve che ne serrava il perimetro. Ora infine riuscivo ad inserirlo nitidamente nel contesto dei rilievi che lo circondavano. Fu all’improvviso, in quell’attimo, che il dettaglio anomalo la cui presenza avevo da tempo avvertito mi si mostrò in tutta la sua forza: la solida struttura metallica del Bivacco, rigidamente agganciata al terreno roccioso sul quale poggiava, si presentava ruotata di 180 gradi. L’unica apertura d’ingresso e uscita si trovava ora non più rivolta verso lo strapiombo e la Valle di Aip ma nell’esatta opposta direzione. Lì dove da sempre ero abituato a riconoscere il fondo cieco di quel parallelepipedo rosso che adesso mi appariva profondamente inquietante.
Avevo trovato il motivo dello strano turbamento clic mi aveva coinvolto quando, da lontano, mi era apparsa la nota sagoma del Bivacco Lomasti. Ma adesso più che mai percepivo che quanto avevo scoperto era solo un marginale particolare, un’infinitesima distorsione, un microscopico tassello montato a rovescio in un mosaico del quale mi sfuggiva ancora completamente l’ampiezza e la sinistra raffigurazione.
Mi inginocchiai nella neve spezzando la crosta gelata col martello da geologo che avevo con me lì dove i cavi d’acciaio ormeggiavano il Bivacco alla roccia. Una, due, tre… cinque e sei. Venti minuti dopo sei buche, profonde dai trenta ai cinquanta centimetri mi garantivano clic i solidi ancoraggi alle sottostanti rocce erano ancora tali ed apparentemente intatti.
Attesi in piedi clic l’aria fresca mi avvolgesse raggelando il sudore prodotto nello sforzo. Guardai ancora, a lungo, l’entrata del Bivacco Lomasti, soffermandomi dubbioso ed indeciso davanti alla soglia. Poi, d’impeto, decisi di varcarla. Erano quasi sette mesi che il Bivacco non ospitava nessuno. Sette lunghi mesi di solitudine tra il ghiaccio e il vento di una stagione che si era subito prospettata particolarmente fredda fin dalle prime giornate di novembre, caratterizzate da una serie di copiose nevicate. Da allora ero io il primo a muovere di nuovo i cardini della pesante porta metallica, priva per scelta e tradizione di qualsiasi serratura o catenaccio. L’interno del piccolo rifugio riproponeva, seppure con qualche trascurabile comprensibile variazione, una disposizione e assetto che ricordavo propri dell’anno passato quando, d’estate, vi avevo sostato per due notti di seguito. Aprii i piccoli finestrini rettangolari facendo scorrere lateralmente le paratìe in lamiera, deposi a terra lo zaino, svuotandone una parte del contenuto sulle coperte di uno dei nove posti letto, lo rimisi in spalla e, dando un’ultima guardinga sospettosa occhiata a quell’interno semibuio, uscii accostando, non senza disagio, quella porta dall’insolita posizione posteriore. Vi feci ritorno la sera, poco prima del tramonto. La notte si prospettava di ghiaccio con il cielo limpido e terso come sempre si vorrebbero i cieli di montagna. Durante la giornata, trascorsa in cima alla Creta di Aip battuta dal sole, il Bivacco Lomasti era stato un punto colorato sperduto sopra una chiazza di neve bianchissima. A tratti avevo persino scordato l’irrisolto misterioso rovesciamento che l’istinto continuava‑ a propormi come microscopica evidenza di un più ampio tragico e sconosciuto progetto.
Ora nell’oscurità della sera priva di luna il buio lentamente si stava riappropriando di ogni cosa. La neve e le rocce, i rilievi e gli strapiombi, lo stesso Bivacco Lomasti, stavano sfumando gli uni negli altri avvolti da un silenzio totale carico di strane sensazioni.
Accesi con molta fatica una candela fissandola ad uno dei tavolacci in legno che ospitava una piccola scorta di scatolami assortiti. L’umidità aveva reso inservibile gran parte dei fiammiferi di cui disponevo. Nell’iniziale buio l’interno del Bivacco mi era parso progressivamente dilatarsi espandendosi all’infinito.
Il fiammifero si era acceso nell’istante in cui il disagio si stava trasformando in paura. La debole luce oscillante della candela proiettava soffuse ombre in continua vibrazione. Il chiarore diffuso si alternava a pieghe d’intensa oscurità che insieme colmavano un silenzio che col passare dei minuti diventava sempre più denso e insostenibile. Mi infilai con lentezza nel sacco a pelo, sdraiato a mezzo metro da terra, in uno dei nove posti sistemati a castello sui lati maggiori del Bivacco. La mia mente continuava ad essere concentrata sull’inquietante particolare del rovesciamento. Non era logico. Nessuno avrebbe potuto farlo, e poi, per quale motivi? Non esisteva una ragione plausibile, non poteva umanamente esserci.
Fu allora, mentre mi sporgevo per spegnere la candela, che lo sguardo incontrò il libro del rifugio stranamente gettato sul pavimento, sotto la fila più bassa di posti letto. Raccolsi da terra il volume. Lì avrei potuto trovare qualche indizio che mi aiutasse a comprendere. Lo presi tra le mani aprendolo in corrispondenza della firma che vi avevo apposto quasi un anno prima, quando ancora tutto si presentava regolare, e da lì cominciai a leggere, con attenzione, gli infiniti messaggi, saluti, sfoghi, esaltazioni, spiritosaggini, estemporaneità lasciati dalle decine e decine di escursionisti che da allora avevano frequentato il Bivacco fino alla sua forzata chiusura invernale.
Arrivai all’ultima pagina senza trovare nemmeno la più esile traccia che mi potesse condurre alla comprensione di ciò che ancora neanche lontanamente potevo immaginare. Mi mancava da esaminare l’ultima dozzina di nomi con relative annotazioni. Un sibilo improvviso di vento, filtrato da un finestrino sconnesso, mi fece sussultare. Ancora dieci nomi e avrei potuto chiudere il volume. Gli ultimi sette. Fuori il vento era diventato forte e continuo. Solo tre nomi. I sibili si facevano sempre più decisi e le raffiche di vento gelido avvolgevano il Bivacco cercando un varco per penetrarvi. Due nomi soltanto. La luce della candela prese ad oscillare rapidamente mentre i miei occhi scorrevano il messaggio lasciato dalle ultime due persone che prima di me avevano occupato il Bivacco Lomasti, sei mesi prima: “1 novembre… ‑
Arrivati al Bivacco si è scatenata una bufera di neve. La prima della stagione (non poteva aspettare ancora un giorno?). La partenza è avvenuta da Paularo con il sole, questa mattina. Continua a nevicare da quasi sei ore. Ormai è quasi buio ma già nel primo pomeriggio con la tempesta di neve non si vedeva a un palmo dal naso. Brr, come si gela. Chi ce l’ha fatto fare? Domani di buon ora si riparte, tempo permettendo. Viva l’imprevisto. Anche questo è avventura. Federico Rovelli e Monica Mineri”.
Fuori il vento cresceva d’intensità. Rilessi quegli ultimi due nomi cercando di ricordare. Avevo la certezza di averli già sentiti o letti da qualche parte. Federico Rovelli e Monica… Ma certo! I due ragazzi scomparsi lungo le Alpi Carniche giusto sette mesi fa, e senza lasciare traccia alcuna. E di loro non s’era più saputo nulla nonostante le ricerche prolungate. Dunque erano stati qui l’ultima volta e qui erano probabilmente spariti.
In quell’istante una raffica di vento più potente delle precedenti fece sentire i suoi effetti all’interno, soffiando attraverso la sconnessione di un finestrino. La fiamma della candela oscillò sempre più rapida poi, mentre riflettevo su quell’inattesa scoperta, si spense.
Nel medesimo attimo in cui realizzavo l’importanza di quei due ultimi nomi mi trovai immerso nella più totale oscurità, da solo, in un punto tra i più isolati alla sommità delle Alpi Carniche, chiuso in una scatola di metallo e con la martellante sensazione che quanto doveva essere accaduto ai due ragazzi che sette mesi prima mi avevano preceduto, ora stava per coinvolgere direttamente anche me.
Mi immobilizzai nella brandina all’interno del sacco a pelo nella angosciante attesa di qualcosa. Ma cosa? Poi, d’un tratto, così com’era iniziato, il vento cessò di colpo. Forse in modo troppo improvviso, meglio definirlo strano, o ancor di più anormale. O forse ero io che in quelle condizioni psicologiche non riuscivo più a distinguere la normalità dall’insolito.
Il buio e il silenzio erano tornati assoluti.
Con gli occhi costantemente aperti fissavo un punto qualsiasi di quel buio uniforme nell’attesa che in quel nero totale si aprisse una crepa, un varco risolutore, qualsiasi cosa clic mi facesse capire. Ormai lo desideravo quasi con ostinazione. Tutto era preferibile a quella forzata attesa di qualcosa. Qualcosa che ormai sapevo sarebbe dovuto accadere. E puntualmente arrivò.
Fu un insospettato sciabolare di luci verdastre che penetrarono da ogni fessura e più piccola sconnessione delle paratie dei finestrini. Mi irrigidii, non sapendo cosa pensare. Minuscoli fasci di luce come quelli che la mattina presto d’estate, quand’ero piccolo, penetravano dalla infinitesima fessura delle imposte di casa. E in quei ventagli immobili di luce i miei occhi di bambino si aggrappavano sognando al pulviscolo che vi danzava lento conic miriadi di stelle luminose.
Mi alzai di fretta uscendo dal sacco a pelo. Qualcosa stava davvero accadendo e in quell’attimo, in attesa di aprire uno spiraglio di finestrino, mi scoprii a pensare: “Finalmente!”
Mi resi conto che la luce, verde ed estremamente intensa, avvolgeva l’intero rifugio ma senza illuminare i rilievi circostanti che restavano immersi nella oscurità più assoluta. Dedussi di trovarmi all’interno di un cono di luce che da un imprecisato punto illuminava il Bivacco. Una sorte di faro o di intenso riflettore sulla cui distanza e posizione non riuscivo a farmi un’idea precisa. Non mi capacitavo nemmeno del perchè di quella strana luce irreale puntata sul Bivacco come ad individuare un bersaglio.
La consapevolezza di trovarmi all’interno di un oggetto prescelto per qualcosa che forse sarei stato in grado di capire solo troppo tardi, cominciava a terrorizzarmi.
Mi spostai lentamente verso la porta, abbassai la grossa maniglia in ferro e presi a spingerla con lentezza verso l’esterno. Mi aspettavo che da quello spiraglio entrasse improvviso un lampo accecante di luce verdastra, invece niente. Il fascio di luce doveva dunque provenire dalla parte opposta, dalle Valli di Aip. Avrei approfittato della posizione completamente in ombra dell’uscita per lasciare il Bivacco cercando poi riparo tra le vicine rocce nell’attesa che qualcosa succedesse. E se quel qualcosa doveva accadere ero ormai certo che avrebbe coinvolto il Bivacco stesso, eventuali occupanti compresi.
Dovevo quindi fare presto, molto presto. Infilai sul maglione la giacca a vento. Stavo raccogliendo dalle brande quante più coperte potevo quando…
Una vibrazione, dapprima impercettibile poi marcatamente ondulatoria, mi fece bloccare istintivamente per poi costringermi a cercare un appiglio alla fila di brandine a castello che avevo alla mia sinistra. Un istante più tardi la porta socchiusa del Bivacco, alla quale stavo dando le spalle, fu sollecitata ad aprirsi lentamente per poi spalancarsi del tutto da qualcosa che in altro momento ed in altro luogo avrei definito accelerazione. Ed in effetti avevo la sensazione di trovarmi in piedi all’interno di un mezzo che aumentava progressivamente di velocità e mi stavo chiedendo il motivo dello strano ed improvviso effetto, quando un vortice d’aria gelata mi colpì alla schiena. Mi voltai di scatto verso la porta che trovai completamente aperta e al di là di essa, illuminata da un debole riflesso verdastro, scorsi nell’oscurità la ripida parete rocciosa ad anfiteatro sulla sommità della quale avrebbe dovuto trovarsi il Bivacco Lomasti e che in quel momento invece si stava progressivamente ed irrazionalmente allontanando.
Per un attimo fui incapace di distinguere la realtà dalla possibile illusione. Restai attonito aggrappato allo stipite della porta metallica mentre metà del mio corpo si protendeva oltre quell’apertura ormai spalancata sul vuoto della valle.
Il Bivacco, assieme ad un sottile basamento di roccia al quale era ancorato, stava scivolando silenziosamente nel vuoto dentro un cono di luce in direzione dell’antica dolina, verso il fondo cieco della Valle di Aip. Terrorizzato intravvidi sulla destra sfilare lento e muto l’enorme ed interminabile muro calcareo verticale della Creta di Rio Secco mentre sul lato opposto la tenue sagoma geometrica disegnata contro il buio della Creta di Aip mi appariva sconsolante come una nave che si allontana inesorabilmente abbandonandomi in acque sconosciute.
Nell’indicibile ansia e paura dalle quali mi sentivo avvinto, sospeso com’ero a mezz’aria dentro quel guscio metallico in volo verso una destinazione che dalla posizione in cui mi trovavo non potevo assolutamente individuare, tentai con ogni forza di usare la ragione cercando un modo per salvarmi, prima che qualcosa di irreversibile potesse capitarmi. Mi resi conto d’un tratto che la ripida parete della Creta di Rio Secco stava rapidamente calando di altezza. Tra breve avrebbe lasciato il posto all’ampia zona circolare a fondo piatto in cui, dopo quasi due chilometri rettilinei, moriva la valle.
Ricordai che proprio sotto di me ora doveva trovarsi l’ampia fascia innevata che avevo percorso la mattina durante la lenta salita al rifugio. La decisione doveva necessariamente essere rapida per risultare efficace, ed altrettanto l’azione.
Cominciai ad avvolgermi intorno al corpo, freneticamente, una sull’altra, tutte le coperte che avevo in precedenza raccolto dalle rispettive brandine. Pochi istanti dopo lo zaino mi precedeva nel salto verso il basso. Altezza stimata non oltre cinque
La Valle di Aip vista dal Bivacco Lomasti. Sulla sinistra si scorge l’estrema propaggine della Creta di Rio Secco; sulla destra la Creta di Aip.
metri. Uscii allo scoperto sulla piccola piattaforma rocciosa di fronte all’apertura. Non osai sporgermi oltre quella zona d’ombra per guardare in avanti. Sarebbe stato certo più prudente farlo più tardi dopo il salto, dal basso, confidando per il momento nell’aiuto delle coperte e della neve. Saltai quasi con rabbia da quel minuscolo rifugio al quale ormai da anni ero affezionato. Saltai e mi mancò il respiro quando nell’attraversare il cono di luce verdastra durante la caduta fui deviato obliquamente trascinato da una forza che non riuscì fortunatamente a trattenermi.
La neve mi accolse più duramente di quanto avevo previsto. Mi ci volle qualche secondo per ricordare chi ero e che cosa facevo in una buca di neve alle dieci di sera, tra una decina di coperte e con uno zaino che trenta metri più indietro mi aspettava nel buio. Mi assestai nella mia nuova posizione e alzai lo sguardo verso il cono di luce che avvolgeva lassù, in alto, il Bivacco Lomasti.
Quello che riuscii a vedere o a percepire nella semioscurità della notte Cu maspettato e tremendo, tragico ed affascinante al tempo stesso. Unica possibile conclusione che potesse competere eon quanto di irreale avevo appena vissuto all’interno di quel ridotto ricovero del CAI che ora stava lentamente sparendo, avvolto nella scia luminosa verdastra, risucchiato da un foro quadrato immerso in un gigantesco ordigno apparentemente metallico che occupava il centro della superficie della piatta dolina della Valle di Aip.
Era sospeso, immobile, a poco più di un metro da terra. Aveva ingoiato in silenzio l’involucro di lamiera che avevo abbandonato con perfetto tempismo. Mi trovavo a meno di trenta metri dal suo profilo incombente. Istintivamente lo ritenni di provenienza non terrestre.
Eppure nel preciso momento in cui, da una posizione non del tutto sicura ma sicuramente non azzardata, intravvedevo per la prima volta l’immagine del mosaico che tessera dopo tessera andavo ricostruendo, rimpiansi vagamente la possibilità perduta di una conoscenza diretta e totale del mistero che avevo solo scalfito. Il prezzo di questa rinuncia era probabilmente la salvezza. L’oscurità di un cielo notturno non raggiunge mai livelli assoluti. Nel tenue diffuso e impercettibile chiarore al quale andavo abituando lentamente la vista ebbi modo di osservare meglio quanto avevo di fronte: una ruvida superficie nerastra marcatamente cupoliforme con un fondo piatto ed apparentemente liscio, priva di evidenti asperità ad eccezione di una sorta di cresta dentata che dalla sommità scendeva diretta verso la base. La struttura si ripeteva, simmetrica e speculare, verso l’alto dando al sinistro insieme il vago aspetto di una enorme clessidra compressa verticalmente ed alta come un edificio di almeno quattro piani. Il foro, alto quasi tre metri e posto verso la base della porzione inferiore di quella sconosciuta entità si era richiuso dopo aver inghiottito il Bivacco.
Mi stavo assestando nel buio del mio punto di osservazione modellato nella neve in attesa che qualcosa di nuovo accadesse e mentre ancora incredulo e osservavo nella semioscurità quelle geometric scese da chissà quale dei punti di luce che ci sovrastavano nello spazio… qualcosa accadde.
Il foro quadrato si riaprì lentamente lasciando filtrare dapprima un sottile raggio di luce che si andò ampliando progressivamente col dilatarsi dell’apertura. Il nuovo cono di luce percorreva deciso, a mezz’altezza leggermente obliquo verso l’alto, l’intera Valle di Aip illuminando con strabiliante nitidezza un punto ben preciso dell’ampio anfiteatro che ne formava la chiusura. Mi portai nella neve verso lo zaino che mi aveva preceduto nel salto dal Bivacco. Volevo il binocolo. Procedetti rapido, avevo paura di essere visto. Non sapevo da chi o da cosa, ma avevo la tagliente sensazione che mille occhi con centomila sfaccettature stessero perlustrando ogni minimo anfratto dell’intera vallata e delle cime circostanti. Raggiunsi lo zaino e con esso il binocolo. Era ancora integro. Mi adagiai nuovamente a terra con il terrore che la macchia scura che formavo contro la neve potesse diventare un facile richiamo. Ma non fu così. Puntai il binocolo dove la scia di luce, in cima alla Sella di Aip incontrava la roccia. E là, sul pianoro illuminato a giorno da quel verde irreale, c’era lo spazio vuoto che fino ad un’ora prima aveva ospitato il Bivacco Lomasti.
Improvvisamente un insolito impercettibile sibilo, acuto e grave al tempo stesso, mi fece voltare di scatto verso l’incombente gigantesca sagoma scura. Nel fascio di luce concentrata che usciva immobile dalla semisfera inferiore ora si era evidenziato un cono d’ombra ristretto e ben delimitato che mi fece pensare alla presenza di un oggetto solido inserito di fronte alla sconosciuta sorgente luminosa. Nel suo insieme mi ricordava uno spettacolare e raro fenomeno ottico, lo “spettro di Brocken”, che l’anno prima avevo avuto la fortuna di osservare proprio sulla Creta di Rio Secco.
La sensazione di quel ricordo fu allontanata dall’apparire, a mezz’altezza dentro il fascio di luce, del Bivacco che precedeva e generava il cono d’ombra interno. Lo vidi passare sopra di me avvolto in un verde abbagliante ed allontanarsi con velocità crescente in direzione della Sella di Aip lungo quello stesso percorso sospeso che con terrore avevo già conosciuto direttamente, all’andata.
Impugnai freneticamente il binocolo puntandolo verso il Bivacco in rapido progressivo allontanamento. Questa volta l’ingresso si trovava nuovamente dalla parte giusta. Potevo osservarlo perfettamente dalla posizione in cui mi trovavo. Tra meno di dieci minuti l’intero Bivacco si sarebbe ricollocato al posto di sempre, vedetta apparentemente immobile aggrappata al ciglio della Sella di Aip. Col binocolo continuai a seguire l’incredibile tragitto del Bivacco fino a quando quanto avevo previsto si fu realizzato.
La luce verde che ne aveva sorretto e guidato il percorso non si spense di colpo come mi ero intuitivamente aspettato. Fu come in un certo senso richiamato indietro, rapidamente. Una specie di lingua d’enorme formichiere che la prima volta aveva raccolto il Bivacco e la seconda l’aveva ricollocato al posto giusto, e nella giusta posizione, per non insospettire le future prede. Le trappole da sempre funzionano solo se non destano sospetti e difatti con me, quel giorno, non ebbe l’efficacia desiderata. Ma desiderata da chi o da cosa? Me lo stavo chiedendo mentre tutto, intorno a me, era ritornato buio e silenzioso. Ma silenzioso non vuole sempre significare anche tranquillo.
Un improvviso rumore anomalo, come di masso gettato nel fango, mi indusse ad osservare meglio quel poco che si intravvedeva dell’enorme struttura che avevo di fronte. Le creste dentate che ne ornavano, d’un lato, il profilo erano state richiamate all’interno. Poi un inaspettato vento sorto dal nulla mi investì frontalmente con decisione. Mi sforzai di non chiudere gli occhi. Le raffiche ora mi ricordavano quelle che avevano preceduto la cattura del Bivacco.
Mi accorsi stupito che le due enormi cupole scure stavano ruotando vorticosamente su se stesse, mentre nell’insieme l’intera struttura continuava a sembrare perfettamente immobile, sollevata d’un paio di metri da terra. Infine si avviò. Scura e sinistra, si inclinò debolmente da un lato e, continuando a vorticare, prese a salire.
Fu a quel punto che, a mezz’altezza sopra di me, il fondo piatto e buio si illuminò per un istante, dall’interno, d’un intenso color fuoco. Fu un solo attimo, ma mi fu sufficiente per ricevere l’impressione di centinaia di ganasce in movimento impaziente e rabbioso stagliate in controluce su quella superficie circolare divenuta stranamente lucida. Ganasce meccaniche o vere e proprie mandibole pronte ad afferrare, strappare, triturare, divorare quanto di vivente il Bivacco Lomasti avrebbe dovuto contenere?
Seduto nella mia buca tra la neve, avvolto dalle coperte che provvidenzialmente avevo tenuto con me nel momento del salto fui scosso da un lungo profondo persistente brivido. E mentre seguivo quella tetra sagoma tornata scura ed ormai quasi invisibile contro il cielo notturno della Valle di Aip, echeggiò un rantolo, uno stridore cupo, quasi un grido di insoddisfazione che, sordo e sinistro rimbalzando tra le pareti delle Crete di Aip e di Rio Secco riempì di vibrazioni la valle. E mi parve quasi l’imprecazione del cacciatore che dopo un continuo e sofferto appostamento trova vuota la trappola che con tanta diabolica abilità aveva congegnato.
Un minuto più tardi sull’intera vallata, immersa nell’impercettibile profumo del freddo notturno, era tornato l’abituale soffuso silenzio. Nessuna traccia poteva testimoniare in alcun modo quanto quella sera avevo potuto osservare da protagonista. Anche il Bivacco Lomasti ad un attento esame non riservò, nei giorni successivi all’evento, assolutamente nulla di anormale, ora che anche l’orientamento anomalo era stato corretto dall’ignoto cacciatore.
Mi rialzai a fatica dal giaciglio modellato nella neve. Mi aggiustai addosso la giacca a vento e lo zaino, abbandonai le coperte a terra e m’incamminai verso il Passo del Cason di Lanza. Ricordavo che oltre la grande dolina la neve si riduceva a poche localizzate chiazze consentendomi un ritorno più agevole. Dill a poco sarebbe sorta anche una consistente falce di luna. Il peggio era sicuramente passato ma non l’avrei dimenticato con tanta facilità.
Non ho mai raccontato a nessuno quanto di insolito e sconvolgente mi accadde quella notte di quasi tre anni fa. L’unico indizio tangibile, la sola prova reale rimasta sulla zona a testimoniare l’incredibile incontro avrebbe solo favorito una denuncia ai miei danni per sporto ed abbandono di coperte di proprietà del Club Alpino Italiano. Ho preferito sempre tacere. Da allora le strane sparizioni di persone svanite nel nulla in montagna si sono continuate a verificare, ovunque, ad intervalli più o meno regolari, in tutto il territorio carnico e tarvisiano.
Penso con rabbia alla gigantesca tetra clessidra rotante, alle sue mandibole, al suo rantolo d’insoddisfazione. Penso con terrore alla trappola rossa tesa sui ripiani della Sella di Aip, alle centinaia di bivacchi del CAI sparsi sulle cime delle Alpi Carniche e delle Giulie, in Dolomiti, sulle Alpi Orobiche, nei massicci piemontesi e valdostani, lungo l’intera catena alpina, pronti a riempirsi e pronti ad essere silenziosamente svuotati. E non posso più tacere.