Correva l’anno 452.
Cominciano così molte storie e parecchie leggende. Questa, storia o leggenda che sia, non sfugge alla regola. L’anno 452 coincide con l’assedio di Aquileia, aggredita, vinta e devastata da Attila alla testa dei suoi Unni. Vale la pena di ripercorrere sinteticamente gli avvenimenti che precedettero e seguirono quella disgraziata estate del 452. Aiuteranno a farvi comprendere il significato di quanto sto per raccontarvi e il ruolo determinante svolto dall’alta Valle del Bût, dalle sue acque e da una particolare roccia che – narra questa volta la leggenda – fu in grado di cambiare il corso della storia dell’intera Europa. E di Storia occorre innanzi tutto parlare.
Gli Unni, per Roma e il suo decadente Impero d’Occidente, da qualche secolo erano diventati una delle tante spine nel fianco orientale. Il quinto secolo dell’era volgare era iniziato sotto i peggiori auspici. Piogge, alluvioni, devastazioni naturali. Poi siccità e ancora alluvioni per le terre della media Europa dell’epoca.
Periodi sempre più lunghi di carestia erano interrotti da raccolti modesti e ormai insufficienti per una popolazione che, nei secoli precedenti, era aumentata in modo considerevole.
Un’ennesima carestia, più prolungata delle precedenti, fu una delle tante ragioni che spinse Attila, Re e condottiero delle sue genti di Pannonia – dove ancora è celebrato come un valoroso – a muoversi ed agire partendo alla conquista delle fertili terre del sud di cui direttamente, in gioventù, aveva conosciuto lo splendore.
Con lui non si limitò a scendere verso la penisola italica solo l’esercito di guerrieri. Fu un’intera etnia a migrare, una considerevole parte di quella popolazione che ormai in patria pativa fame e stenti. Un’intera orda barbarica capace di lasciare il proprio segno nelle pagine della Storia.
Gli Unni, muovendosi dalle terre d’Ungheria verso il più fertile meridione d’Europa, attraversavano territori non immuni da quelle medesime carestie che spingevano loro stessi a migrare. Erano in tanti, in troppi, per trovare quotidianamente il necessario per sfamarsi.
Ne derivava che spesso, molto spesso, per centinaia di migliaia di individui in moto compatto verso le terre di conquista, l’unico sostentamento diventava l’erba delle radure e dei crinali. E dato che per cibarsene erano soliti strappare gli steli con tutte le radici, dietro al proprio passaggio lasciavano più desolazione di quanta ne incontrassero. Da qui il detto, diventato poi una sorta di presentazione sintetica del personaggio: «Dove passa Attila coi suoi Unni non cresce più un filo d’erba!».
Con i presupposti appena descritti anche la frase acquista un significato più completo, differente da quello appreso tra i banchi di scuola. Non si trattava dunque solo di distruzione fine a se stessa, ma di devastazione finalizzata anche al nutrimento di un popolo in movimento al seguito dei propri guerrieri.
Nel 452 la storia delle genti carniche e friulane si intersecò con quella di Attila e della sua orda mobile. Gli Unni scesero verso l’Adriatico con l’iniziale convinzione di raggiungere la Trieste del tempo, ma fermarono i propri interessi bellicosi a Cividale, devastandola, per poi muoversi verso sud-ovest, puntando su Aquileia, un tempo seconda città dell’Impero Romano.
Per raggiungere la pianura friulana, che appariva come un vasto bosco alternato a sparsi appezzamenti coltivati, erano transitati dal valico di Monte Croce Carnico, calpestando quella medesima strada romana realizzata secoli prima e sistemata da nemmeno cento anni ad opera di Valente e Valentiniano. Era stata costruita per raggiungere il Norico e ora sarebbe servita per condurre verso Roma, dal Norico e da territori ancora più estremi, un vento gelido di conquista a rovescio.
Non è dato di sapere, ma salendo alla volta del Passo quasi con certezza avranno sostato nei vasti pianori distribuiti tra l’attuale Ploeken Haus e la Val Valentina. Poi, in poche ore di marcia, avranno raggiunto il fondovalle della futura Timau e lì, di fronte all’apparire inaspettato del fragoroso Fontanone avranno fermato il passo, dissetandosi a quell’acqua.
La strada romana, poco più di una mulattiera a tratti lastricata di pietre, era percorsa da una fila di carri cigolanti, di bestie da soma, di individui urlanti, di cataste informi di masserizie e pentolami, di stracci e di tende. Davanti e dietro, a serrare le fila, guerrieri armati, con elmi, scudi, lance, spadoni e, a tracolla, i famosi archi unni.
Un’unica lunga, immensa massa continua di individui che, a seconda della larghezza del territorio e delle sue strade, dei fiumi da guadare o delle radure da attraversare, a tratti si snodava sottile e infinita per poi radunarsi e fluire sotto forma di un ammasso scuro che pareva il volteggiare imprevedibile ma disciplinato degli stormi che in autunno sorvolano le città.
Partita settimane prima dalle terre del Danubio, per la prima volta quella moltitudine si bagnava in un’acqua capace di scorrere verso un mare diverso e per tutti, tranne che per Attila e i suoi guerrieri più maturi, ancora sconosciuto. Era là che si sarebbero diretti. Aquileia ancora non lo sapeva, ma li stava già aspettando. Prima ancora però sarebbe toccato a Cividale, e ancor prima a Iulium Carnicum. Quel vicus romano posto a baluardo, sentinella e difesa del solco morfologico dell’Alto Bût, lungo l’arteria di scambio coi territori periferici dell’Impero, ma anche di richiamo per potenziali ingressi indesiderati.
A 500 anni quasi esatti dalla sua fondazione (50 a.C.), Iulium Carnicum non resse l’impatto di quella marea umana, feroce e affamata. La cittadina fu saccheggiata e distrutta, come attestano le cronache. Crollarono le colonne del foro, gli edifici si trasformarono in rovine. Le terme pudie, vanto della zona, furono devastate.
Probabilmente al saccheggio seguì una sosta nei luoghi dove, alla confluenza tra Bût e Chiarsò, la valle si allarga. Lo si deduce da quanto ci raccontano le leggende del luogo che, in questo caso, riguardano direttamente Attila e giustificano gli avvenimenti che, a distanza di pochi mesi, sarebbero accaduti.
Attila aveva un piano preciso. Tergeste, Patavium, Ticinum, Mediolanum. Trieste, Padova, Pavia e Milano. Poi, marciando verso sud, avrebbe puntato al sacco di Roma. Trieste fu sostituita da Cividale e Aquileia. Le città di Padova, Pavia e Milano invece caddero di seguito, secondo le previsioni.
Ma a Roma Attila con la sua orda non arrivò mai. La Storia narra che si fermò in un’imprecisata località del mantovano.
Anzi, fu fermato. Ma non lo bloccarono le armi – è ancora la Storia a raccontarlo – furono le parole, anche se si trattò di parole rilevanti, pronunciate niente meno che dal Papa di allora, quel Leone I che gli andò incontro accogliendolo e cercando di bloccarne l’avanzata e, per questo, a sua volta fu accolto nei libri di Storia per esserci riuscito.
Le argomentazioni che adoperò il pontefice e che fecero desistere Attila dai suoi propositi di conquista non furono mai rivelate. Di preciso la Storia, quella con l’iniziale maiuscola, racconta che Attila senza combattimento alcuno, lasciò Papa Leone I, le terre italiche e, rapido com’era giunto, fece ritorno in patria percorrendo per la seconda volta nella stessa estate le terre del nord-est, questa volta presumibilmente attraverso il Carso.
L’anno dopo Attila sarebbe morto in modo improvviso e cruento, soffocato da un’emorragia interna al termine del sontuoso banchetto offerto per celebrare le proprie nozze. Il suo vasto regno, passato nelle mani dei tre figli, si disgregò pochi anni più tardi mettendo per sempre fine alla supremazia territoriale degli Unni.
Se Attila, durante quella fatidica estate dell’Anno Domini 452, avesse scelto di proseguire alla volta di Roma è certo che la storia d’Europa, e non solo, avrebbe modificato ogni suo evento successivo. Il nostro stesso mondo presente sarebbe impossibile da immaginare. La Storia dunque, ascrive a Papa Leone I il merito della mancata dominazione unna. Gli storici moderni, al contrario, ne attribuiscono la causa a un’epidemia di peste che aveva iniziato a diffondersi tra i suoi uomini, in aggiunta ai diffusi focolai di malaria e colera che avevano incontrato attraversando la pianura padana. Tutti questi aspetti insieme, unitamente ad alcune considerazioni di tattica militare, e un immancabile, sostanzioso tributo papale versato in oro, potrebbero avere dissuaso Attila dai suoi propositi di conquista.
Le leggende invece chiamano in causa l’alta Valle del Bût. Sono proprio le leggende, una in particolare, che alle rocce e alle acque di questa vallata riferiscono le ragioni della inattesa e salvifica decisione che portò il conquistatore caucasico a desistere da ogni suo più bellicoso proposito.
Furono le rocce e le acque dell’alta Valle del Bût che, in modo tanto sconcertante quanto stupefacente, agirono sull’animo fortemente superstizioso di Attila, sempre attento ad interpretare i segni della natura come presagi – ora fausti ora di sventura – com’era accaduto durante l’assedio di Aquileia. Al terzo mese di inutile stallo era già stata presa la decisione di procedere oltre, abbandonando l’obiettivo e dirigendosi alla volta della romana Patavium, quando all’improvviso una cicogna bianca, reggendo col becco il suo piccolo, fu vista levarsi in volo e abbandonare precipitosamente una delle torri di cinta della città. Attila, che assisteva alla scena, ne restò colpito, ma il significato di un tale evento gli divenne chiaro quando, con la cicogna ancora in volo, un fragore di macerie segnò il crollo della torre stessa. Fu interpretato come un segnale del Fato! Aquileia sarebbe caduta. Non bisognava ritirarsi ma attaccare. E così fece, con l’esito che tutti conosciamo.
Quel giorno, il 18 luglio del 452, la terra friulana gli aveva mandato un segnale. A distanza di poco tempo ne avrebbe inviato un altro. Questa volta di segno opposto. Terribile nella sua evidenza, altrettanto chiaro nel significato. Questa volta non sarebbe arrivato dalla pianura ma dalla montagna. Da quei monti che Attila e i suoi Unni avevano appena attraversato, distribuendo lutti e devastazioni. Per questo secondo segno – evidenza chiara del destino che lo attendeva – fu proprio lo stesso Attila che, per ironia della sorte, predispose ogni cosa affinché il presagio si manifestasse. A favorire l’apparizione del nuovo segno furono il suo ego smisurato, la sfrenata idolatria di se stesso e la voglia di lasciare l’effige della propria presenza e transito in quelle valli che – così pensava – di lì a poco sarebbero state annesse al grande regno unno.
Pochi mesi prima di questi avvenimenti dunque, Attila e i suoi Unni, oltrepassando il valico di Monte Croce e dirigendosi verso Iulium Carnicum, attraversarono il bosco di Alzeri, a quei tempi fitto e ombroso, come documentano le cronache.
Giunti al guado pietroso del Rio Randice il varco nella vegetazione scoprì, in lontananza, la riva scoscesa del Torrente Bût incisa nella roccia. Racconta la leggenda che Attila, fermando il proprio cavallo, guardò la roccia assorto. In quell’istante il vento mutò direzione portando verso di lui un odore familiare, carico di umidità.
Chi gli era vicino lo sentì mormorare «Harkany,… Harkany…», mentre allargava le narici sotto il metallo di un elmo grigio che raramente lo abbandonava. Citava il nome di una località della Pannonia meridionale nota, anche a quei tempi, per le acque solforate e le sue terme. Attila e i suoi luogotenenti conoscevano bene Harkany, e quell’odore caratteristico e putens che ora permeava le falde di Alzeri e la roccia di Araseit, lungo la Bût, era lo stesso.
Affidò il cavallo e di slancio, guidato dal greto del Randice, scese verso quegli odori forti che gli ricordavano la patria, lontana ormai centinaia di miglia. Il percorso lo condusse sotto Araseit e le sue rocce verticali.
Guadò le acque di magra del Bût e lì si fermò. Aspirò l’aria con intensità, osservò con cura la parete, ne tastò la roccia. Poi parlò con chi l’aveva seguito nella discesa e ora in silenzio gli stava accanto.
Cento giorni di tempo e dieci maestri scalpellini – certamente presenti tra quella moltitudine che si portava appresso – avrebbero plasmato quel versante roccioso ricavandone un altorilievo di proporzioni gigantesche. La testa del loro condottiero e imperatore, coperta dall’immancabile elmo, sarebbe divenuta sentinella sulla vallata del Bût e, al tempo stesso, segnale inequivocabile per le genti del posto e per quelle in transito: un monito, un crudo avvertimento. Tra non molto dalla roccia di Araseit il suo sguardo di pietra avrebbe scrutato per sempre – nelle sue intenzioni – la vallata, con le sue acque, le cime, i pascoli, le foreste e, naturalmente, le genti.
Così comandò e fin dai giorni appena successivi all’annientamento di Iulium Carnicum, il tratto di valle di fronte ad Alzeri cominciò a risuonare dei colpi ritmati degli scalpellini.
Tre mesi dopo, puntualmente, l’opera fu terminata. La testa di Attila, scolpita nella roccia di Araseit, di fronte al Rio Randice, avrebbe d’ora in poi scrutato con sguardo severo e indagatore chiunque si fosse trovato a transitare lungo la Valle del Bût. Le cronache tramandate oralmente riportano che raggiungesse un’altezza di sei piedi (oltre 10 metri, ndr). A giudicare da quanto oggi ancora resta a testimonianza degli originari caratteri del manufatto possiamo confermarne le dimensioni. Nel frattempo gli eventi incalzavano. Tre mesi prima Iulium Carnicum aveva capitolato, dopo breve battaglia, ed era stata distrutta. Aquileia era appena caduta quando un messaggero partì dal presidio unno accampato in località Avosacco, nei pressi della futura Arta. Il messo si diresse rapido alla volta di Aquileia con l’intenzione di comunicare al re unno la conclusione di quanto aveva comandato. Lo incontrò, soddisfatto vincitore, mentre banchettava con parte dei suoi sulla sommità del Colle di Udine, alla luce di un enorme fuoco. Partirono a cavallo, Attila e il messaggero, il giorno successivo. L’alba li illuminò quando transitavano sotto ai primi contrafforti montuosi, all’altezza dei Monti Brancot e San Simeone. Lì dove la via romana che portava al Norico, addentrandosi lungo la Valle del Bût, si incontava con le Prealpi. Raggiunsero Avosacco che ancora era mattina. Quando Attila arrivò di fronte alla roccia di Araseit la luce del sole, con angolatura ancora propizia, illuminava nitidamente la sua effige dallo sguardo di pietra.
Compiaciuto si riconobbe e, dopo un solo istante trascorso immobile in silenzio, attorniato dai suoi, ordinò il cambio del cavallo e senza un saluto lasciò il presidio tornando rapido verso Udine e Aquileia, dove si ricongiunse alla propria moltitudine devastatrice. Nuove, impegnative prove di forza lo attendevano di lì a poco.
Nel mese che seguì, una dopo l’altra, caddero o capitolarono sotto la sua crudele sferza Padova, Pavia e Milano. A questo punto Attila cominciò davvero a credersi invincibile e sempre più convinto che il Fato – a cui credeva in modo viscerale – fosse e restasse dalla sua parte, privilegiandone ogni iniziativa. Forte di questo stabilì che il suo prossimo, immediato obiettivo sarebbe stata Roma, la porta sulla conquista dell’intero meridione della penisola.
Fu allora che Papa Leone Magno si mosse. Anzi, fu l’Imperatore di allora, Valentiniano III, a chiamarlo in soccorso carismatico, affiancandogli una delegazione del senato. Era l’ultima carta che l’Italia di allora, il sempre più problematico Impero Romano d’Occidente, poteva permettersi di giocare. Ma questa, lo sapevano, sarebbe stata l’ultima mano. Quella decisiva, capace di imprimere – in ogni caso – una svolta alla Storia.
Papa Leone I, col suo variegato seguito pervaso da sentimenti che spaziavano dallo sgomento, al pessimismo e alla rabbia, concedette udienza ad Attila, Re degli Unni, il barbaro invasore, andandogli incontro nelle piatte terre mantovane.
A ben vedere, quel giorno fu Attila a concedere udienza a Leone, forse incuriosito dalla possibilità di osservare un papa da vicino. E poi, quando gli avevano tradotto quel nome che gli pareva così poco adatto a un pontefice, gli era scaturita improvvisa una rauca e beffarda risata; lui che non rideva mai. Adesso più che mai voleva vedere, toccare con mano, fin dove sarebbe arrivato il coraggio di questo Primo Leone.
I due protagonisti dell’evento si erano appena avvistati e ora si stavano avvicinando, l’unno verso l’altro, accompagnati da un lato da toghe, vessilli, colorate tonache, cappelli rossi piatti e rigidi, breviari in pergamena, dall’altro da sovrabbondanti lance, puzzolenti pelli, archi e faretre stracolme, asce e scudi.
I soldati imperiali, Leone Magno li aveva volutamente relegati a distanza. Non visibili, ma pronti ad intervenire.
L’unno Attila e il toscano Leone procedevano ora lentamente, a piedi, nonostante l’iconografia classica (Raffaello Sanzio) ce li tramandi a cavallo. Una tenda, preparata per l’occasione, era pronta per ospitare l’incontro. All’interno si sarebbero ritrovati soli. Papa Leone I ed Attila, il pontefice santo e il barbaro distruttore. Fuori, gli scudi e i breviari si squadravano sospettosi.
Entrarono: davanti Attila, dietro di lui Leone, che volgendo un ultimo sguardo ai suoi accostò, con apparente calma, i lembi d’ingresso della tenda che li inghiottì entrambi. Li separavano quasi mezzo secolo di esperienze e un destino opposto. Sullo stentato prato le ombre delle lance conficcate al suolo cambiavano con lentezza direzione e lunghezza. Se non fosse stato per questi particolari, il tempo si sarebbe detto immobile, cristallizzato nell’attesa dell’ormai scontato precipitare degli eventi.
Poi ci fu qualcosa che richiamò tutti alla realtà. In lontananza comparve un’infinitesima nuvola di polvere. Si levava dalla pianura arida e secca ingigantendosi nella direzione dei convenuti. Quando fu sufficientemente vicina, alla sua base apparve una macchia scura in frenetico galoppo. Sopra al cavallo un unno rivestito dalle inconfondibili pelli, urlava spazio per sé e il proprio destriero.
Senza rallentare fendeva come un coltello la moltitudine dei suoi pari che, come una mobile marea scura che gli si richiudeva alle spalle, copriva l’ultimo enorme tratto di quella sterminata pianura mantovana che si allargava ad oriente.
Cavallo e cavaliere giunsero fin davanti alla tenda. Si fermarono con un’impennata dalla quale l’unno si catapultò a terra senza tante cerimonie. Si qualificò, scambiando brevi parole con chi lo poteva capire. Ad un cenno trasse da sotto le pelli che lo coprivano una pergamena ripiegata e la consegnò, ritenendo concluso il proprio compito. Il luogotenente unno la aprì, guardandola di sfuggita. Era un semplice disegno. Anzi, un doppio disegno affiancato, tracciato a grafite con mano sicura, capace però di cambiare la Storia.
Ripiegò la pergamena, entrò risoluto nella tenda e la consegnò al Re Attila, come gli era stato chiesto con perentoria fermezza dal messaggero a cavallo.
Poi, tornò all’aperto senza minimamente prevedere che solo qualche istante più tardi, l’intera orda barbarica, dal primo, più fidato luogotenente all’ultimo nato, avrebbe ricevuto l’ordine supremo di abbandonare le terre dell’Impero Romano d’Occidente per fare ritorno in patria.
E qui la Storia si arricchisce di varie e opposte versioni, anzi di supposizioni. Riporta l’offerta di un consistente tributo in oro da parte di Roma, dell’ombra della peste che imperversava nel meridione della penisola e che stava iniziando a mietere qualche vittima nel suo stesso popoloesercito, e anche di una visione che lo stesso Attila – superstizioso e attento ai segnali del Fato – ebbe all’interno della tenda, per un istante, scorgendo accanto a Papa Leone Magno una figura diafana e ieratica armata di un brando alzato verso di lui, contro il Re degli Unni. L’unico dato certo e incontrovertibile resta la decisione, improvvisa, inaspettata, per certi versi irrazionale, presa da Attila che in quel preciso momento uscì dalla tenda e diede l’ordine di invertire la marcia di conquista.
A queste ipotesi, o possibilità, se ne aggiunge una quarta. Questa volta, a differenza delle altre, è suffragata da una testimonianza, concreta e silenziosa, ancora oggi visibile. La si può osservare di fronte ad Avosacco, sulla parete rocciosa che incombe lì dove il Rio Randice incontra la Bût. Testimonianza alla quale si aggiunge anche una tradizione orale tramandata dalle generazioni che, da quel lontano A.D. 452, hanno continuato, ininterrottamente, ad abitare la vallata.
E qui, per comprendere, diventa opportuno riprendere quel racconto parallelo che, in terra carnica, si era interrotto con la partenza di Attila da Avosacco, in sèguito alla rapida visita fatta alla sua enorme effige in pietra. Ne tracceremo gli avvenimenti fino a quando le due storie riprenderanno a scorrere insieme, in coincidenza con il momento in cui nella tenda papale fa il suo ingresso una pergamena ripiegata contenente un doppio disegno tracciato a grafite.
La siccità che imperversava nella media Europa, sulle aree alpine si concretizzava con alternanze di periodi aridi e intervalli con piogge brevi e torrenziali. A distanza di un mese appena dalla breve, improvvisa visita di Attila alla sua sesquipedale effige, in Araseit, sull’Alto Bût si manifestò uno di quei periodici intensi nubifragi ai quali il clima stava abituando la popolazione locale. Sopra Araseit, sopra la sua testa in pietra, la roccia proseguiva per altri duecento metri, strapiombante, terminando con una cornice vegetata, un bosco di latifoglie che guidava superiormente il limite della roccia.
Lì, tra quel bosco, appoggiato a pochi passi dall’orlo, si trovava da sempre un macigno enorme (di certo un residuo abbandonato dal ghiacciaio durante il suo dissolvimento) che, visto da valle, appariva come un grande ellisse. Le screziature della roccia, molto particolari, vi disegnavano, proprio nel centro, una sorta di nucleo scuro, anch’esso visibile fin dai Piani di Alzeri.
Durante la stagione estiva il masso spariva inghiottito dal fogliame per poi riemergere durante l’autunno. La gente del posto l’aveva battezzato il vôli di San Pieri, l’occhio di San Pietro – tradotto dal friulano – tanto quell’enorme pietra tondeggiante (e i santi c’entravano sempre) pareva davvero uno sguardo in grado di vegliare sulle genti della valle, proteggendole.
Ma questa volta – era opinione comune – sembrava non avere vigilato abbastanza, visto quanto era accaduto. Sembrava soltanto. Il vôli di San Pieri stava solo aspettando l’attimo più favorevole per intervenire.
E quel momento si presentò durante il nubifragio. Pioveva da un giorno e due notti consecutive ormai. Il Torrente Bût, il Rio Randice e tutti i corsi minori erano gonfi d’acqua. Dalla stessa parete di Araseit uscivano fiotti d’acqua in pressione che creavano cascate copiose ai lati della grande scultura in pietra che non mostrava risentirne. In più la pioggia cominciava a saturare le fessure e le fratture della roccia.
Il punto dove eseguire l’opera non era stato scelto a caso. Lontano da fratture, lontano da fasce che denunciavano il periodico manifestarsi di venute d’acqua, lontano da quanto potesse, anche a distanza di secoli, minarne la stabilità. Tutto era stato calcolato per far sì che l’effige sopportasse gli affronti del tempo. Ma era d’estate, e il bosco che rivestiva la sommità della parete rocciosa era al massimo del suo sviluppo. Chi valutò, calcolò, programmò, analizzando tutte le variabili, ne dimenticò una, momentaneamente celata tra il fogliame più fitto e rigoglioso: il vôli di San Pieri.
L’imprevisto si verificò in pieno giorno, sotto una pioggia battente. Tra gli abitanti di Avosacco ci fu chi riuscì a seguire in diretta la scena. La sera, intorno al focolare, l’accaduto si trasformò in racconto da non dimenticare. Chi lo ascoltò continuò nel tempo a raccontare quell’esperienza. La trasmise ai figli e ai nipoti i quali, a loro volta, fecero altrettanto, facendola arrivare fino a noi.
Oggi è toccato a me raccogliere l’antico testimone e, attraverso queste pagine, passarlo a voi affinché quell’evento, capace di modificare il corso della Storia, continui a sopravvivere e ricevere degno ricordo.
Chi ebbe la sorte di osservare la scena ha tramandato queste impressioni, mediate attraverso la trasmissione orale di una cinquantina di generazioni.
«Sotto la sferza della pioggia scrosciante all’improvviso si percepì un rumore cupo, una vibrazione sorda dell’aria e della terra. La parte più alta della roccia di Araseit si stava muovendo! Si staccava come un grosso ramo secco schiantato dal vento. Si mosse una fetta superficiale di roccia, alta forse come un carro colmo di fieno e larga altrettanto. Poca cosa, ma al suo culmine reggeva una sottile striscia di bosco che ne orlava la sommità. E tra il fogliame di quel bosco si celava, quasi al limite della parete strapiombante, il vôli di San Pieri.
L’enorme, tondeggiante macigno superava in dimensioni quelle del suo piedestallo in roccia. Entrambi ora stavano franando solidalmente con un boato. Sembrò davvero l’urlo del Santo che accompagnava la discesa di un possente maglio, carico di una forza primordiale che aumentava nella sua corsa verso il basso.
Nel crollo, il basamento roccioso che reggeva l’occhio di San Pietro quasi subito si frantumò in una miriade di schegge. I frammenti si confusero con la pioggia battente schizzando verso le acque torbide del Bût, oltre 300 metri più in basso. Gli alberi ed arbusti, divelti e trascinati nel crollo, si avvitavano nel vuoto, crepitando e spezzando le cortecce che esplodevano intorno centinaia di schegge di legno.
In tutto questo caotico frantumarsi il macigno precipitava restando intatto. E mentre cadeva, il masso e l’occhio disegnato sulla sua superfice, lentamente ruotarono in basso, quasi a guardare verso la direzione della caduta. E più osservavo il vôli di San Pieri che precipitava e più la certezza che la sua traiettoria fosse guidata dal Santo diventava realtà.
L’impatto fu devastante. Un’esplosione come di tuono e valanga insieme riempì la valle risalendo i versanti, mentre fitte volute di polvere di roccia sia alzavano da un preciso punto di Araseit.
Fu la pioggia, poco dopo, che s’incaricò di ripulire l’aria e svelare il miracolo. San Pietro ci aveva fatto la grazia! Il vôli di San Pieri aveva atteso il momento propizio, preso la mira, e poi centrato a morte l’odiosa effige di Attila, barbaro conquistatore della nostra vallata, scolpita nemmeno un mese prima sulla roccia di Araseit.
Ma la cosa ancora più incredibile è stato l’effetto che l’occhio di San Pietro, con la propria caduta, fu capace di produrre. Non si tratò di una semplice distruzione, no. Fu qualcosa di molto peggio. Si compì una trasformazione, e quella fu il vero miracolo! Dove fino al giorno prima c’era stata la testa in roccia di Attila ora si stagliava… un teschio! Un gigantesco teschio roccioso con le orbite scure e profonde, il naso svuotato e la bocca scavata da uno spasmo. Questo fu il messaggio inviato direttamente da San Pietro: Attila tornerà polvere e noi risorgeremo liberandoci degli Unni invasori!» Il vôli di San Pieri aveva terminato la propria missione. Era iniziata 18.000 anni prima, al momento dell’abbandono da parte del ghiacciaio che si ritirava dalla Valle del Bût. Ora avrebbe riposato sul fondo del Torrente e, col tempo, le ghiaie fluviali l’avrebbero celato in profondità dove ancora oggi probabilmente riposa.
A ricordo di quello che di lì a poco sarebbe accaduto – nulla in confronto a quanto appena descritto – un piccolo edificio intitolato, naturalmente, a San Pietro fu edificato sul colle che, a poca distanza, affianca le rocce di Araseit. San Pietro, che col suo occhio salvò la Valle del Bût (e la futura Italia tutta) dalla dominazione unna. Nel corso dei secoli, le successive modifiche hanno progressivamente trasformato la modesta costruzione votiva in un gioiello architettonico dell’arte cristiana: la Chiesa di San Pietro in Carnia, il cui significato e ragione della propria esistenza va dunque cercato nella notte dei tempi.
Di nuovo l’acqua era stata determinante. Questa volta nel precipitare gli eventi. Gli Unni che abitavano il presidio lasciato da Attila a Iulium Carnicum si accorsero dell’accaduto solo il giorno seguente. La cosa non poteva essere taciuta. Anche per loro non era tanto la distruzione di quanto avevano realizzato a renderli sgomenti, quanto la trasformazione subita dalla loro opera in pietra. Due ore dopo un messaggero unno già partiva da Iulium Carnicum in forsennato galoppo, all’inseguimento del suo Re condottiero.
Portava con sé, celata tra il torace e le pelli che lo vestivano, un foglio di pergamena ripiegato. In esso, accanto al ritratto a grafite dell’effige scolpita in roccia era stata aggiunta la raffigurazione della sua tragica modifica: l’enorme teschio mortifero. Dopo quasi cento miglia di corsa sfrenata le due storie si ricongiunsero, tornando a fondersi in una sola.
Attila uscì terreo dalla tenda papale e diede un ordine: inatteso e incomprensibile per tutti, tranne che per il trafelato messaggero.
La Storia della futura Italia, dell’Impero Romano d’Occidente, per il momento sarebbe proseguita priva di stragi e senza il giogo della dominazione unna. Sarebbe proseguita così come sarebbe continuata la vita di Attila, attento e pavido lettore del Fato e dei suoi criptici segnali.
Restare e morire, o ritirarsi e vivere. Era questo il chiaro messaggio che gli lanciava la roccia di Araseit da una sperduta vallata carnica che odorava di zolfo e di patria lontana. «Perdere un territorio, ma non perdervi la vita. Nulla senza niente in cambio e la vittoria sulla morte è senza prezzo» dovette pensare il Re Attila lasciando l’Italia del tempo.
Non ripassò per la Valle del Bût. Scelse di scivolare via attraverso il Carso, lontano dalla maledetta Araseit. L’attendeva l’inaridita pianura Pannonica, dove la sua moltitudine avrebbe ricominciato a soffrire la carestia, ma dove lui avrebbe continuato ad assaporare la vita e i suoi piaceri.
Questo, che appare come l’epilogo di una incredibile storia, capace di scrivere la Storia, in realtà fu solo e soltanto il suo penultimo atto. Tornato nelle terre degli avi, Attila Re degli Unni, a meno di un anno di distanza prese moglie e, come le cronache raccontano e inizialmente vi anticipavo, la notte che accompagnò e seguì il fastoso banchetto nuziale – era l’anno 453 – fu colpito da epistassi. Ebbro per il banchetto fu soffocato dalle copiose perdite di sangue espulso dal naso.
Morì così, con gli occhi sbarrati nello spasmo del soffocamento, le narici e la bocca spalancate nel disperato tentativo di trovare aria per non soccombere.
Il Fato, nemmeno un anno prima, gli aveva consegnato la medesima immagine: quella della sua morte. Non gli raccontò dove sarebbe successa. Gli comunicò soltanto che entro breve sarebbe accaduta, e in un certo determinato modo. Fu lui a correrle incontro. La roccia di Araseit, da allora ribattezzata Roccia del Teschio, si fece carico della duplice consegna della profezia: ad Attila e alla Storia.