I misteri di Pramollo

LA GALLERIA DEL TORNANTE 19

Il Passo Pramollo, inciso tra Friuli e Carinzia, dal lato italiano può essere raggiunto solo risalendo una tortuosa e ripetitiva serie di curve e tornanti che si succedono in un crescendo di strapiombi ed avvolgimenti dai 600 metri di Pontebba ai 1530 metri dello spartiacque alpino.

Gran parte del percorso è un’esile traccia sinuosa che si avventura in bilico a mezz’aria su pareti calcareo dolomitiche perennemente soggette a piccoli franamenti e rotolii di blocchi. Due sono le gallerie da attraversare delle quali la più lunga avvolge un tornante proseguendo poi per altri cento metri con la volta e le pareti in roccia viva priva di rivestimento artificiale. Fino a circa 30 anni fa erano poche le macchine che vi si avventuravano e quelle poche concentrate nei mesi più caldi. D’inverno tutto scompariva. Le curve, i tornanti, i rumori del bosco, sprofondavano risucchiati dalle abbondanti nevicate. Le bocche delle gallerie quasi sempre si tappavano di bianco a sigillare per mesi e mesi dei cavi cilindri di roccia che trasudavano ghiaccio. E fu proprio nella galleria a tornante che trenta anni fa, durante il disgelo primaverile, vennero rinvenuti i resti di un’auto ridotta ad un confuso ammasso di metallo.

La scoperta fu fatta casualmente da Tito Toller, guardia forestale in servizio antibracconaggio. La neve cominciava a sciogliersi ovunque anche se in molte zone la quantità accumulatasi durante l’inverno era tale che prima di un’altra settimana la strada non si sarebbe potuta dichiarare completamente percorribile.

La guardia forestale rifece per la seconda volta nello stesso giorno il tragitto verso la galleria, tra la neve e le chiazze d’erba secca dell’anno passato, schiacciata ed appiattita per sei mesi dalla coltre gelata. Mancava poco alla galleria. Tito ToIler si fermò di scatto costringendo a fare altrettanto i due carabinieri che ora lo accompagnavano per i rilievi del caso. Ascoltarono in silenzio. Era certo di avere percepito un respiro, una sorta di rantolo cupo e profondissimo. Ma ora, di nuovo, tutto taceva. Ripresero quasi subito il cammino considerando che la sera sarebbe calata entro poche ore e che il vento che risaliva con insistenza la profonda gola andava aumentando di forza. Si trovarono in breve all’interno della galleria dopo aver superato quel poco che restava dell’ammasso di ghiaccio e neve che ne aveva tappato l’ingresso durante tutto l’inverno. Proseguirono cauti cercando di adattare la vista alla luce delle torce elettriche ed evitando il rivolo d’acqua che scorreva intermittente sull’asfalto lungo la parete sinistra.

Ad un tratto la guardia Tito Toiler che guidava il gruppo inciampò in un ammasso di metallo e ghiaccio cadendo da un lato. Si rialzò da terra ferito ad una mano e considerò stupito, ora che si era abituato alla diminuita visibilità, che la volta precedente i resti contorti dell’auto si trovavano qualche decina di metri più arretrati. E non si sbagliava. La curva nella quale ora si trovavano non poteva essere confusa con nessun’altra parte della galleria: era sicuro che quella stessa mattina, non più di otto ore prima dunque, il tratto in tornante era completamente sgombero, in caso contrario se lo sarebbe ricordato con certezza. Non riuscì tuttavia a convincere i carabinieri che accompagnava i quali gli fecero notare l’impossibilità che qualcuno, dopo la sua scoperta, fosse penetrato nella galleria da valle, altrimenti salendo avrebbero notato nuove impronte tra la neve oltre alle sue. L’accesso da nord d’altra parte era impensabile essendo l’apertura a monte ancora totalmente ostruita dalla neve e dal ghiaccio. Stavano quasi per convincerlo quando un boato sordo e vibrante fece tremare impercettibilmente la volta della galleria. Si precipitarono verso l’esterno ricordano i catastrofici terremoti che periodicamente tormentano la regione friulana.

Corsero verso il ponte al termine di una discesa scoperta e lì attesero, lontani da pareti rocciose, eventuali repliche che non si verificarono. I militi ritennero prudente fare ritorno a Pontebba.

Tito Toiler scese verso valle con loro ma durante tutto ii tragitto non disse una parola. Quando già erano in vista dell’abitato e delle sue prime luci da una delle ultime curve che sovrastavano il paese, li raggiunse un suono profondissimo ed agghiacciante; quasi un respiro prolungato e atroce soffiato verso l’esterno da un gigantesco polmone squarciato. «È la valanga» disse il militare più giovane «se fosse terremoto adesso già balleremmo!» e continuarono a scendere.

«Non è valanga» pensò Tito Toiler, ma non volle dire nulla. Il giorno seguente sarebbe tornato lassù.

Quindici ore dopo ripercorreva per la terza volta la pista, oramai ben definita, che da Pontebba portava alla galleria. Era nuovamente solo. Salendo trasalì all’udire nuovamente quel tragico respiro del giorno prima: era questa volta il rumore sordo d’un soffio, sovrapposto ad uno scricchiolio modulato su toni bassissimi, impossibile da descrivere. «Non è valanga» si ripetè, e proseguì. Arrivò al ponte, ad un centinaio di metri dalla mèta. Si sedette sulla spalletta a riposarsi e a caricarsi psicologicamente. Pensando all’interno di quella galleria ora, per la prima volta, provava un’insolita sensazione, avvertiva qualcosa di sinistro che il giorno prima non gli era stato possibile definire con precisione.

Fu all’improvviso che ritrovò, contro il cumulo di neve spianato dalle perlustrazioni del giorno precedente, l’ammasso di lamiere contorte. Si bloccò istintivamente guardandosi attorno alla ricerca di qualcuno o qualcosa che giustificasse e rendesse logica la nuova scoperta. Nel silenzio che seguì solo il torrente Bombaso, nella gola sottostante, insisteva nel suo grido monotono di sempre. Una fitta alla mano fasciata richiamò Tito Toiler alla realtà interrompendo un flusso disordinato di pensieri e paure. «Eppure» si scoprì a pensare ad alta voce «non riesco ad immaginare una spiegazione logica; per quanto mi sforzi non riesco a trovarla! Ma deve esserci, deve!». Terminò gridando forte l’ultima frase e l’eco delle sue stesse parole servì a diminuirgli quel senso di ansia soffocante che l’aveva assalito alla vista del mucchio di lamiere. Quell’ammasso ora non si trovava più internamente alla galleria dove il giorno prima.se lo ricordava ma giaceva addossato all’entrata della galleria stessa. Tutto, invece di suggerire la spiegazione logica cercata da Tito Toller, si complicava in maniera angosciosa rendeno impossibile qualsiasi soluzione. La guardia forestale avanzò lentamente verso il metallo stritolato e informe, eppure stranamente compatto. Solo adesso quest’ultimo particolare, osservato alla luce del giorno, gli si presentava nella sua inaudita quanto incomprensibile stranezza. Quello che fino a meno di un anno prima era stato un automezzo era ora ridotto ad un fuso irregolare di metallo la cui lunghezza non superava nemmeno i due metri. Ripensò, come aveva fatto il giorno precedente, alla tragica sorte occorsa agli occupanti di quell’auto della quale adesso si stentava a capire persino il modello e la marca. Si fermò a guardare quegli incredibili tragici resti appoggiato sull’orlo esterno della galleria, cercando disperatamente di comprendere. Aspettava che un segnale, un indizio, un particolare ancora inosservato gli potesse d’un tratto rendere chiara ogni cosa. Questo soprattutto sperava: una spiegazione logica e tranquilla. Ma cosa ci sarebbe potuto essere di tranquillo in una macchina stritolata e compressa trovata prima dentro una galleria e poi, improvvisamente, in una notte, spostata all’esterno da qualcosa o qualcuno che non aveva lasciato tracce?

Accese senza eccessiva fretta la lampada che aveva portato con sè e penetrò all’interno della galleria. Era deciso a capire cosa fosse accaduto ed in che modo. Alla luce della torcia elettrica le pareti scavate nella roccia e prive di rivestimenti artificiali mandavano strane ombre fluttuanti.

Tito Toller aveva già superato il tornante buio ed inquietante il cui gomito scavato in galleria lo isolava ora dall’esterno. Il silenzio adesso si era fatto quasi totale, interrotto solo dagli sgocciolii che scendevano ad intervalli regolari dalle sporgenze della volta. La lampada vagava prima verso l’asfalto poi sulle pareti alla ricerca di indizi. Qualcosa avrebbe dovuto pur esserci. Tito Toiler non sapeva con precisione cosa avrebbe dovuto cercare ma era certo che qualcosa doveva esistere e che quel qualcosa era lì dentro, in quella galleria, e io stava aspettando.

Ad un tratto successe. Si bloccò incredulo nel silenzio fissando la parete di roccia viva della galleria. L’indizio che cercava era lì di fronte a lui: bianco e calcinato. Era ancora e solo indizio e non soluzione, ma una tale agghiacciante scoperta poteva essere determinante. Come interpretare un simile ritrovamento? Si rese conto di stare costruendo mentalmente delle spiegazioni ancora più assurde di quell’assurdo indizio appena rinvenuto. Ma era poi davvero così inverosimile quel femore umano calcinato che sporgeva dalla parete della galleria? Tentò di convincersi che qualcuno, prima dell’inverno appena trascorso, l’avesse ritrovato in qualche smottamento del terreno ‑ non bisogna dimenticare che la zona fu interessata, in special modo durante la prima guerra mondiale, da intensi combattimenti e che vecchie tombe di soldati sono segnalate in vari punti tra la fitta boscaglia ‑ e che poi, per un macabro scherzo, l’avesse conficcato nella parete rocciosa. Tito Toiler non voleva convincersi che quell’osso sporgente verso la strada potesse essere in relazione con i rottami che giacevano all’esterno della galleria.

Con riluttanza, dopo aver avvicinato da più direzioni la lampada all’inquietante scoperta, decise di toglierlo da quella posizione e portarlo all’aperto al fine di esaminarlo meglio. Lo afferrò con la mano sinistra mentre la destra ferita reggeva il fascio di luce. Si rese immediatamente conto perplesso che la leggera pressione che riteneva sarebbe bastata a disincastrare l’osso dalla roccia contrariamente non lo spostava nemmeno. Ne fu al tempo stesso sorpreso e terrificato. Osservò con più attenzione il punto in cui il femore era in contatto con la roccia. La cosa più logica era che ci fosse stata una cavità, un foro nella parete, quasi dell’identico spessore dell’osso, per poter far sì che questo vi rimanesse incastrato. Invece sembrava affondare nella roccia stessa come un bastone infisso in un fango molle in seguito induritosi.

Tito Toller era sconcertato. Si sentiva inquieto mentre un senso di crescente disagio lo stava soffocando. Risolse di estrarre a forza quell’osso e di uscire al più presto dalla galleria tornando in paese a riflettere. Appoggiò a terra la lampada e con entrambe le mani si aggrappò a quella raccapricciante sporgenza. E tirò.

Tirò con tutta la forza della mano sana e di quella ferita. Puntò i piedi per terra, in seguito ne fissò uno sulla parete puntellandosi con la rabbia della paura dell’incertezza, e del desiderio di conoscere. Ansimava e sudava nello sforzo riempiendo con la sua presenza il silenzio della galleria. Se si fosse fermato un istante ad ascoltare, si sarebbe forse stupito di non udire più i gocciolii che cadenzavano il tempo all’interno di quel budello di pietra, o forse non ci avrebbe fatto caso. Nonostante la temperatura fosse ancora elevata gli stillicidi dalle pareti si erano bloccati d’un tratto, pressocchè contemporaneamente. Tirò con maggiore violenza. L’intera galleria, la roccia, la stessa montagna tutta in quell’istante vibrò.

Tito Toller nella tensione che lo pervadeva non se ne avvide ma non avrebbe potuto non accorgersi che all’improvviso, mentre si produceva nello sforzo maggiore, il femore, bianco e liscio, cominciava a muoversi. Prese a scorrere, prima impercettibilmente, poi molto lentamente, infine in maniera continua e regolare. Tito Toller tirava spasmodicamente l’osso verso di sè con gli occhi chiusi serrati nello sforzo e contemporaneamente quel medesimo osso scivolava con esasperante regolarità verso l’interno della parete!

Continuò a stringere la presa gridando di terrore mentre il femore s’approfondiva nella roccia. Lo mollò solo quando si rese conto agghiacciato di essere aggrappato ormai ad una piccola tonda sporgenza bianca che tra breve, risucchiata completamente, avrebbe trascinato anche lui verso la stessa fine. Staccò la presa nell’attimo in cui le sue dita vennero a contatto con la roccia, stranamente soffice e rigida al tempo stesso. Cadde violentemente all’indietro nell’ansia di allontanarsi da quella maledetta superficie. Un rumore cupo ed assordante cominciò a riempire la galleria mentre le pareti e la volta ebbero un sussulto gonfiandosi verso l’interno. Tito Toiler, disteso ancora sull’asfalto le vide abbassarsi nella sua direzione e proiettare incredibili giochi di ombre sul suo corpo. Al movimento segui un lento e profondo

Delfinato ‑ Verso il Col de La Pilatte (Foto R. Del Gobbo)

Delfinato ‑ Verso il Col de La Pilatte (Foto R. Del Gobbo)

rantolo indescrivibile di intensità crescente. La montagna stava respirando come un gigantesco mantice attraverso la galleria di roccia viva. La galleria, una bocca spalancata per respirare e nutrirsi. Questa era la conclusione alla quale stava giungendo Tito Toiler nella sua folle corsa verso l’uscita! E le pareti lo serravano da vicino ad intervalli sempre più frequenti. Rotolò, strisciò in discesa verso il tornante buio gridando di rabbia e terrore ad ogni improvviso contatto con la roccia. Fu sul punto di cedere, nella curva del tornante, mentre il respiro della montagna si era fatto insopportabile. Le pareti della galleria giungevano ora vicinissime al suo corpo col quale cercava disperatamente di mantenersi al centro della strada bloccandosi ogni volta che la roccia premeva verso di lui e scattando nei brevi attimi in cui le pareti si distendevano nuovamente verso l’esterno.

Si ritrovò fuori sconvolto, con la divisa a pezzi, ferito in più punti, ben sapendo che i brandelli strappati si trovavano ora internamente alla pietra dalla quale era stato quasi risucchiato. I resti della macchina non c’erano più. Al loro posto si poteva ora osservare una leggera traccia sul fondo stradale seguita da un lungo solco sulla scarpata che conduce, immediatamente fuori dalla galleria a lato della strada, verso l’impetuoso sottostante torrente Bombaso. Lentamente le vibrazioni si attenuarono, l’affannoso cupo respiro tacque e la galleria riprese il suo aspetto abituale.

Tito Toller, guardia forestale, tornò in paese e fece rapporto ai superiori. Pochi mesi più tardi fu improvvisamente trasferito al Comando di un’altra regione. Adesso gli hanno affidato mansioni d’ufficio e raramente lo fanno uscire in perlustrazione sulle montagne.

Oggi la strada d’accesso al Passo Pramollo, tra il Friuli e la Carinzia risulta, rispetto ad allora, non modificata nel tracciato ma molto migliorata per quanto riguarda la percorribilità: è asfaltata dal 1967 ed ha poi subito vari consistenti lavori di sistemazione. Il valico sul passo da oltre dieci anni resta aperto anche d’inverno e sono sempre numerose le macchine degli sciatori che percorrono quella strada specie nei fine settimana per raggiungere l’attrezzatissima stazione sciistica realizzata in Austria, appena oltre confine.

Sono ormai trenta anni che Tito Toiler è stato trasferito e nessuno ha più rinvenuto rottami d’automezzi sia all’interno che all’imbocco dell’inquietante galleria scavata in tornane. Eppure, da allora, torno ogni anno sul finire dell’inverno ad osservare la galleria del tornante 19.

Rottami no, non ne ho mai trovati è vero, ma che dire dei solchi freschi e profondi che ogni anno si sono ripetuti e continuano a rinnovarsi puntualmente lungo la ripida scarpata che dalla galleria scivola verso il torrente Bombaso?

E d’un tratto, all’improvviso, terminando di scrivere l’esperienza del tornante 19, una serie di pensieri mi si accavalla velocemente dando forma ad una strana ed inaspettata intuizione.

E il movente si fa chiaro.

La formazione di una catena montuosa è definita come orogenesi e nel corso della storia geologica le orogenesi si sono susseguite periodicamente in varie parti del globo. Il motore delle compressioni alla base di tali sollevamenti crostali era fino ad ora cercato nel profondo, nell’astenosfera costituita da uno spessore di cento chilometri di materia in continuo movimento che trascinerebbe nei suoi spostamenti le placche litosferiche inerti che ad essa si sovrappongono.

Nelle fasce di collisione tra due placche in movimento reciproco si verrebbe a creare una catena montuosa. Masse senza vita, spinte verso l’alto da forze a loro estranee. Blocchi che partecipano di riflesso a spinte profonde.

E invece la montagna vive, respira e … si nutre. Divora per espandersi. Per crescere ha bisogno di consumare materia vivente! Non posso fare a meno di pensare che l’orogenesi alpina, la stessa che è attiva ancora oggi, è iniziata settanta milioni di anni or sono. E settanta milioni di anni fa, al termine dell’era mesozoica alla fine del Cretaceo, un’enorme quantità di materia vivente si estinse, fu distrutta, cessò di esistere improvvisamente. Un alito di vento sconosciuto, sulle cui origini si dibatte tuttora, spazzò dalla superficie terrestre quanto di più gigantesco tra gli esseri viventi era stato prodotto fino ad allora dall’evoluzione: i dinosauri. Interi ordini, famiglie, generi e specie di rettili erbivori e carnivori furono annientati dal nulla durante un breve attimo geologico. Un istante più tardi crescevano rapidi i primi contrafforti di una catena montuosa destinata ad ampliarsi ed estendersi dal Marocco all’Himalaya.

Da allora, dopo quel primo abbondante rifornimento di materia prima che le permise di sollevarsi dal mare e dalle pianure eon l’iniziale grande balzo, la catena alpina continuò ad alimentarsi costantemente, a piccoli pasti; milioni, miliardi di piccoli pasti durante settanta lunghi milioni di anni, consumati quotidianamente ancor oggi, sia pure con ritmo più lento, attraverso anfratti rocciosi, gole, cavità, pozzi, caverne, grotte e gallerie scavate in roccia viva.

Croda e Forcella Passaporto (Foto C. Cocoitto).

Croda e Forcella Passaporto (Foto C. Cocoitto)